Miglioramento della malattia di
Alzheimer con ACE inibitori
ROBERTO COLONNA
NOTE E NOTIZIE - Anno XVI – 04
maggio 2019.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia”
(BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi
rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente
lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di
pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei
soci componenti lo staff dei
recensori della Commissione Scientifica
della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
L’invecchiamento della popolazione nelle
società più sviluppate si sta accompagnando ad un’accresciuta frequenza di
diagnosi e un aumento di incidenza della malattia di Alzheimer e di altre
patologie neurodegenerative dell’età avanzata. Come è noto, non esiste ancora
una cura in senso stretto per la patologia alzheimeriana,
ossia un trattamento in grado di arrestare il progredire della malattia
determinando la guarigione; infatti, i quattro farmaci approvati specificamente
per questa indicazione determinano solo lievissimi miglioramenti sintomatici.
Per tale ragione, un impegno straordinario è profuso in tutto il mondo per
identificare nuovi bersagli e strategie terapeutiche per cercare di modificare
l’andamento del processo patologico della più grave forma di demenza
conosciuta. I recenti approcci che interferiscono con gli elementi
neuropatologici classici, quali le placche senili extracellulari formate da
aggregati β-amiloidi e le alterazioni neurofibrillari
intraneuroniche di tau iperfosforilata,
nonostante buone premesse sperimentali, hanno deluso le aspettative,
rivelandosi inefficaci alla verifica clinica.
In questa condizione, una verifica
clinica che ha mostrato reali miglioramenti cognitivi protratti nel tempo
suscita notevole interesse: Ursula Quitterer e Said Abdalla
dell’Università di Zurigo, da tempo impegnati nella ricerca di nuove strategie
terapeutiche per la malattia di Alzheimer, hanno sperimentato con successo un
ACE inibitore ad azione centrale.
(Quitterer U. & Abdalla S., Improvements of Symptoms of Alzheimer’s
Disease by Inhibition of the Angiotensin System. Pharmacological Research - Epub ahead of print doi: 10.1016/j.phrs.2019.04.014,
2019).
La provenienza degli autori è la seguente: Molecular
Pharmacology, Department of Chemistry and Applied Biosciences, ETH, Zurich (Svizzera); Institute of Pharmacology and Toxicology,
Department of Medicine, University of Zurich, Zurich (Svizzera);
Molecular Pharmacology, Department of Chemistry and Applied Biosciences, ETH
Zurich, Zurich (Svizzera).
Sono state veramente numerose negli
ultimi decenni le terapie proposte per la malattia di Alzheimer, spesso
adottate anche a lungo e conservate a dispetto dell’evidente inefficacia,
quando vi era certezza di innocuità e assenza di effetti collaterali. Del lungo
elenco, citiamo solo una parte: vasodilatatori cerebrali, dosi massicce di
vitamine, quali B, C ed E, vari stimolanti, L-dopa, ossigenoterapia iperbarica,
gingko biloba e somministrazione endovenosa di
immunoglobuline. La sperimentazione clinica di colina, fisostigmina e lecitina
ha invece fatto registrare risultati negativi o di difficile interpretazione.
Le terapie correnti con precursori o
agonisti colinergici e con inibitori dell’acetilcolinesterasi,
come il donepezil, producono solo modesti effetti
positivi. Ad esempio, con quest’ultimo gruppo di farmaci, vari studi clinici su
grandi numeri hanno documentato un lieve prolungamento dell’abilità del
paziente di sostenere una vita indipendente, ma questo effetto richiede che i
farmaci siano assunti per un arco di tempo della durata di almeno 6-12 mesi[1]. Uno studio di meta-analisi, su tutti i farmaci presi insieme, ha
dimostrato un miglioramento medio di soli 2-3 punti sui 70 dell’Alzheimer Disease Assessment Scale e un lievissimo rallentamento medio
nella progressione[2]. Alcuni importanti studi di verifica non sono riusciti a dimostrare
benefici con questi farmaci (es.: AD 2000
Collaborative Group)[3]. In ogni caso, l’indicazione è solo per le fasi iniziali o intermedie.
È noto che, quando si manifestano
sintomi psicotici, si prescrivono farmaci quali il trazodone,
l’aloperidolo, la tioridazina,
il risperidone e altri appartenenti a queste classi,
che generalmente sono efficaci nel ridurre i comportamenti aberranti e le
allucinazioni. Ma numerosi studi clinici indicano che la generalizzazione del
loro impiego nella malattia di Alzheimer è sconsigliabile, perché crea più
problemi di quanti ne risolva[4], confermando quanto insegnato dalla nostra scuola neuroscientifica: lo
sviluppo del processo neurodegenerativo rende più vulnerabile il cervello, e la
massiccia soppressione dell’attività dopaminergica, così come l’interferenza
con vari altri processi legati alla neurotrasmissione, tipici di questi
psicofarmaci, può accelerare la progressione della malattia. Uno studio
randomizzato, condotto da Schneider e colleghi, ha dimostrato che olanzapina, quetiapina e risperidone nel trattamento di psicosi, aggressività e
agitazione nella malattia di Alzheimer avevano un’efficacia comparabile a
quella del placebo.
La memantina
(20 mg/die), antagonista glutaminergico dei recettori
NMDA, ha dato alcuni buoni risultati nelle prestazioni di memoria, anche se uno
studio condotto da Reisberg e colleghi su 252
pazienti (187 hanno seguito il protocollo completo), ha fatto registrare dati
positivi su poche scale di misura, ma nessun cambiamento in 3 fra le misure
principali della prestazione cognitiva[5]. Gli effetti collaterali sono minimi, e il farmaco è stato approvato per le
fasi avanzate della malattia.
Altrove abbiamo trattato gli
inibitori delle secretasi, gli anticorpi e alcune
nuove proposte.
Torniamo, ora, allo studio di Ursula
Quitterer e Said Abdalla.
I due ricercatori svizzeri hanno
verificato che l’inibizione dell’ACE (angiotensin-converting
enzyme), da parte di un inibitore ad azione
centrale, ritarda i sintomi della neurodegenerazione,
la formazione delle placche β-amiloidi e dell’iperfosforilazione
della proteina tau in modelli
sperimentali di malattia di Alzheimer.
Questo approccio è stato impiegato
in un trial clinico, che è ancora in
corso, per verificare l’efficacia nella realtà della malattia neurodegenerativa
umana. Evidenze iniziali su pazienti affetti da malattia di Alzheimer mostrano
che il trattamento con un ACE inibitore in grado di penetrare nel cervello
contrasta il processo neurodegenerativo e la progressione verso la demenza. È
stato poi specificamente osservato che ACE inibitori che agiscono centralmente,
somministrati in aggiunta alla terapia standard con inibitori della
colinesterasi, possono migliorare la funzione cognitiva nei pazienti affetti da
malattia di Alzheimer per vari mesi.
Commentando questo esito, i due
ricercatori affermano che si tratta di uno dei più promettenti risultati nel
trattamento della malattia di Alzheimer da oltre dieci anni a questa parte.
L’autore della nota ringrazia
la dottoressa Isabella Floriani per la correzione
della bozza e invita alla
lettura delle numerose recensioni di argomento connesso che appaiono
nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella
pagina “CERCA”).
Roberto Colonna
BM&L-04 maggio 2019
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data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione
scientifica e culturale non-profit.
[1] Degenerative Diseases of
the Nervous System, in Adams e Victor’s Principles of Neurology (Ropper,
Samuels, Klein) 10th edition, p. 1072, McGrawHill,
2014.
[2] Ropper, Samuels,
Klein, op cit., p. 1072.
[3] Ropper, Samuels,
Klein, idem.
[4]
Ropper, Samuels, Klein, idem.
[5] Reisberg
B., et al. Memantine in moderate-to-severe Alzheimer’s disease. New England Journal of Medicine 348: 1333, 2003.